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Daniela Piras intervista Maria Antonietta Pirrigheddu

Rassegna stampa

   24 maggio 2018
Un'artista poliedrica.
Intervista a Maria Antonietta Pirrigheddu

Maria Antonietta Pirrigheddu recita in galluresedi Daniela Piras
Oggi vogliamo parlarvi di un’artista gallurese molto interessante: Maria Antonietta Pirrigheddu. Attrice di teatro, scrittrice, ricercatrice spirituale e creatrice di artistici talismani di vetro. Nella sua carriera di attrice ha costruito un mondo composto da tante “zie”; una metafora per esprimere i diversi ruoli da lei interpretati. Una caratteristica di Maria Antonietta è la recita in dialetto gallurese. Ha cominciato a recitare in pubblico con la Filodrammatica Gallurese, allora diretta da Marcuccio Achenza e in seguito curata dalla figlia Margherita, ma ha lavorato anche con altre Compagnie, con musicisti e artisti di vario genere. In particolare con l’associazione di spettacolo “L’Almunìa”, che ora ha chiuso i battenti, ha avuto modo di mettere in scena una bella carrellata di personaggi particolari, diversissimi l’uno dall’altro ma tutti efficaci e sorprendenti.

    Maria Antonietta, la tua attività artistica è piuttosto complessa, o almeno così potrebbe apparire, spiegaci in poche parole chi sei e di cosa ti occupi.  
Chi sono? Lo sapessi! Sono una persona con mille curiosità, che ha voglia di fare e provare tante cose. Mi piace il palcoscenico, il teatro ma anche la piazza, così come ho bisogno di solitudine per pensare, osservare, inventare. Sono una persona battagliera, ma soprattutto sono convinta che il peggior posto in cui si possano tenere i sogni e i talenti sia il famoso cassetto. Amo comunicare e rapportarmi con gli altri, cosa che di solito mi è abbastanza facile. Anche se chi pensa di conoscermi bene è spesso vittima di un’illusione.

    Maria Antonietta, la tua attività artistica è piuttosto complessa, o almeno così potrebbe apparire, spiegaci in poche parole chi sei e di cosa ti occupi.  
Non credo ci sia molta differenza, in fondo. Quando reciti entri dentro un personaggio, diventi per un po’ un’altra persona, giochi ad essere quella. Probabilmente attingo ad aspetti di me che normalmente non emergono, o che non conosco, o forse a ciò che sarò in futuro, come l’anziana zia Micalina. Oddio, in questo caso spero di no: anche se da vecchia avrò probabilmente il suo carattere, spero di non somigliarle nell’aspetto! Ma la stessa cosa avviene anche quando scrivo. Non amo perdermi in dettagli e descrizioni, a meno che non siano finalizzati a qualcosa di preciso: racconto ciò che accade o che è accaduto, ciò che i personaggi delle mie storie vivono  e sentono. Anche in questo caso si tratta di diventare qualcun altro. Così succede spesso che chi legge o ascolta le mie storie si convince che siano autobiografiche. E magari si congratulano con me per il coraggio avuto nel lasciare un marito non adatto, oppure mi chiedono dove abitasse esattamente la “signora dei quaderni”...

   Tu sei una donna molto ironica che riesce a comunicare temi anche molto delicati proprio attraverso questo mezzo. Quanto conta l’ironia, sopra il palcoscenico e nella vita di tutti i giorni?
È fondamentale, e credo sia evidente. Mi piace cogliere il lato umoristico della vita e soprattutto di me stessa. Perché c’è una parte comica in ciascuno, solo che molti di noi non se ne accorgono e si perdono l’occasione per farsi una risata. C’è anche un rovescio della medaglia, però:  spesso coloro con cui parlo non riescono a capire quando scherzo e quando faccio sul serio, così che talvolta appaio del tutto fuori dal mondo – per usare un eufemismo. Adoro indossare i panni di personaggi bislacchi, passare dall’uno all’altro con la stessa velocità con cui si cambia un vestito, magari mettendo in risalto aspetti assurdi dell’esistenza che quasi mai godono dell’attenzione che meriterebbero. C’è però anche una me stessa molto affidabile: è quella che compare soprattutto quando scrivo determinate cose, o quando tengo delle serate informative su temi a me cari. Un aspetto profondo e coscienzioso che viene fuori quando desidero condividere “scoperte” di natura più sottile, quelle di cui parlo ad esempio nel mio sito Lunadivetro.

   Quanto pensi sia importante il teatro dialettale nella diffusione del patrimonio linguistico e nella sua tutela e trasmissione ai posteri?
Ho avuto la fortuna di apprendere la lingua gallurese fin da bambina, dai miei genitori, nonni, zii. Ma ciò con cui sono venuta a contatto grazie al teatro è stato impagabile. Con zio Marcuccio ho imparato a scrivere il dialetto correttamente, tanto per cominciare; ma soprattutto studiando i copioni, che devi mandar giù a memoria, vieni a conoscenza di un’infinità di parole, di usanze e tradizioni il cui uso si sta perdendo o è già stato dimenticato. Impari, archivi, divulghi, preservi. E lo fai divertendoti e facendo divertire. Ci può essere modo migliore?
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