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Porgi l'altra guancia

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PERDONARE O PORGERE L'ALTRA GUANCIA?

Il perdono esibito al telegiornale

  «Signora, perdonerà l’assassino di suo marito?», domandava durante un servizio TV un giornalista, rovistando senza pietà dentro una tragedia appena compiuta.
  «Siete disposti a perdonare chi ha ammazzato vostro figlio?», chiedeva l’intervistatore con altrettanta morbosità in un’altra occasione.
  Pare l’ultima tendenza, quella di estorcere dichiarazioni di perdono (o del rifiuto a farlo), in quest’epoca in cui anche le cose più intime vengono messe dentro il piatto a spettatori che si nutrono della sofferenza altrui. Sarebbe interessante, dunque, chiedere ai giornalisti in questione che cos’è il perdono secondo loro. Visto che usano questa parola con tanta disinvoltura, dovrebbero conoscerne la valenza... Oppure no?
  Ecco, no. Se avessero saputo, se avessero compreso, si sarebbero guardati bene dal fare simili domande.
  La realtà è che non possiamo padroneggiare il senso di ciò che non riusciamo ad applicare. E non ci riusciamo perché l’atto del perdonare, così come viene comunemente inteso, non è prerogativa umana. Il perdono infatti non è quel che ci hanno insegnato al catechismo, né ciò che la Tv vorrebbe dimostrarci. E quando proviamo a seguire certe indicazioni impossibili ne usciamo frustrati e pieni di sensi di colpa. Perché, anche se vogliamo perdonare, non possiamo far finta che niente sia accaduto. Non posso impormi di dimenticare che un mafioso ha ucciso mio padre; non posso fingere che un prete non abbia violentato per anni mio figlio. Sarebbe una forzatura, un’ipocrisia.

Non spetta a noi "farla pagare"

  C’è inoltre una considerazione fondamentale da fare: visto che perdonare significa in primo luogo assolvere dalla pena, è un atto che di certo non ci compete. «Dio perdona tutto», si dice, e a qualche livello è sicuramente vero; ma gli errori, pur se perdonati dall’Altissimo, in un modo o nell’altro avranno sempre degli effetti. È una legge di natura: c’è una conseguenza per ogni azione.
  Noi non possiamo sostituirci a Dio, né modificare le sue leggi. Tutt’al più possiamo cercare di impedire al prossimo, e soprattutto a noi stessi, di commettere altri crimini. Per questo esistono i tribunali.
  Ciò che ci compete, invece, o meglio ciò che dovremmo coltivare, è la consapevolezza che non spetta a noi “farla pagare” a qualcuno. Sappiamo che la giustizia universale farà inevitabilmente il suo corso, ma non saremo noi a decidere come e quando. Il desiderio di vendetta, perciò, tanto è nocivo quanto insensato.
  Il perdono non può essere ritenuto nemmeno un atto di magnanimità, cosa che presuppone un senso di superiorità nei confronti dell’altra persona - ritenuta meschina, ignorante o cattiva.
  Quale può essere allora il giusto modo di concepire il perdono?

Il perdono serve soprattutto a chi lo concede   

  Qualcuno sostiene che questa parola possa essere vista in una prospettiva particolare, facendola diventare per dono: un dono, quindi, un regalo fatto alla persona che ne ha bisogno. Invece il concetto è da ribaltare. Perché il perdono è un regalo che facciamo a noi stessi. Perdonare vuol dire prendere atto di ciò che è stato, analizzare con apertura mentale e lungimiranza sia il fatto stesso che colui che l'ha commesso, e poi concedersi la libertà di allontanarsi: da costui, certo, ma soprattutto dalle emozioni e i sentimenti malsani che ha suscitato in noi.
  Il perdono serve soprattutto a chi lo concede. Se di fronte ad un torto o ad un’ingiustizia è normale provare rabbia, almeno al momento, poi bisogna evitare che la rabbia irrancidisca, ossia che diventi rancore. È indispensabile alla propria salute mentale e fisica. La rabbia mantenuta a lungo diventa appunto qualcosa di stantio, di andato a male. Qualcosa che avvelena il nostro ambiente interiore e che, a lungo andare, compromette anche quello esteriore.
  Il rancore è una sorta di filo sottile ma resistente che ci lega alla persona che ci ha offeso - o che pensiamo l'abbia fatto. Così, paradossalmente, più forte è il nostro risentimento verso una persona, più vi restiamo attaccati.
  Peggio ancora se si arriva all’odio, deleterio come nient’altro. L’odio è una vera e propria corda che ci stringe all'altro fino a soffocarci. Addirittura incide, col tempo, anche sulle nostre sembianze fisiche.

Perdonare è tagliare i vincoli   

  Perdonare significa dunque riuscire a liberarsi. È un atto col quale tagliamo i vincoli che ci incatenano proprio a quelle persone e a quelle vicende. Un atto benedetto grazie al quale ci apriamo al nostro rinnovamento.
  Non ha necessariamente a che fare con la pretesa di nutrire sentimenti d’amore e di nuova accettazione, come se nulla fosse successo, magari mettendo l’altro in condizione di colpirci ancora. Questo non sarebbe certo un bene, né per il colpevole né per chi potrebbe esserne ancora danneggiato. Spesso chi la passa liscia una volta tende a ripetere la propria impresa. Interpretato in questo modo, l’invito a “porgere l’altra guancia” è davvero poco educativo.

Qualcuno che ci mostra ciò che non vogliamo comprendere

  Infine, potremmo valutare il sacro gesto del perdono anche da un altro punto di vista: un aspetto forse non semplice da considerare, ma di grande utilità.
  Talvolta le ingiustizie subite, specie se reiterate, portano con sé delle lezioni che difficilmente potremmo ricevere in altro modo. Siamo spesso vittima di credenze personali limitanti. Credenze che ci siamo costruiti in momenti particolari, durante i quali abbiamo interpretato gli eventi a modo nostro, e che poi ci trasciniamo dietro per sempre, lasciandocene condizionare in perpetuo. E solo qualcuno che ce le mostri in tutta la loro bruttezza, facendocele vivere in maniera bruciante, può scardinarle. Perché si può vincere solo ciò che si riesce a guardare in faccia. Possiamo affrancarci solo da ciò che comprendiamo.
  In questo senso siamo noi stessi a richiamare certe situazioni: è il sistema col quale l’anima ci guida a prendere coscienza delle nostre catene. Quando si capisce questo meccanismo, subentra l’accettazione e poi la serenità. Addirittura giungiamo a ringraziare colui che si è prestato, a livello animico, a darci l’insegnamento di cui avevamo bisogno. Anche se è stato duro da digerire. Chi può dire, allora, se non ci sia stato un vero e proprio accordo tra le nostre anime? E possiamo stabilire quanto sia costato all'altro?

Porgi l'altra guancia

  Questo tipo di comprensione ci scioglie dai lacci di un tempo. L'accettazione ci permette di ricominciare a vivere, ma su un piano diverso. La gratitudine nei confronti della vita e di chi ci ha aiutato a liberarci fa scaturire in noi consapevolezze mai possedute. Forse è questo il perdono nell'accezione più alta del termine.
  A questo punto possiamo osare un’interpretazione del tutto nuova del “porgi l’altra guancia”. Possiamo tradurla semplicemente con «Sii diverso. Esci dal tuo solito modo di agire e di reagire. Mostra che sei qualcosa di più di ciò che manifesti di solito. Mostra un altro volto. Il tuo vero volto».
  Come sempre, è un discorso che andrebbe fatto in primo luogo a se stessi. Perché non siamo capaci né di pazienza né di perdono, per quanto ci riguarda. Ci è più facile passare sopra le ingiustizie commesse da altri, piuttosto che dimenticare i nostri errori. Forse si tratta di una forma di presunzione: non tolleriamo di essere difettosi come il resto del genere umano. Ne proviamo vergogna. Eppure non ci possiamo permettere di trascinarci dietro un passato che non esiste più, che non ha alcun diritto di gettare le sue ombre sul presente.
  Concediamoci il perdono, dunque. Perché il passato ha valore solo in virtù dell’esperienza che porta. Il resto è fumo.
Maria Antonietta Pirrigheddu
27.09.16

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