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Quando Dio ordina di uccidere

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QUANDO DIO ORDINA DI UCCIDERE
  Qualche anno fa ho partecipato ad un incontro parrocchiale: un fraticello francescano teneva una lezione su Abramo, il biblico patriarca.
  La storia è nota. Abramo e la sua vecchia moglie, dopo lunghe pene, erano finalmente riusciti ad avere un figlio, frutto di una promessa divina. Il fanciullo era la luce dei loro occhi. Ma quando crebbe, Abramo fu “contattato” nuovamente dal Cielo con una richiesta sconcertante: Dio gli chiedeva in sacrificio proprio Isacco, il suo primogenito ed unico figlio!
  Il patriarca non esitò un istante. Non si fece domande su questo Dio in contraddizione con se stesso, e seppur con dolore si accinse ad infilare il pugnale nella tenera gola del suo pargolo. Fortunatamente un angelo lo fermò, costringendolo a disobbedire, e tutto finì nel migliore dei modi, ossia con un’altra solenne promessa divina.
  Questa la storia.
  La lezione era tutta tesa a mettere in luce la grande fede di Abramo, che si era reso (quasi) omicida pur di non dispiacere il suo Dio. Alla fine il frate chiese se c’erano domande.
  «Sì», dissi io alzando la mano, «io ce l’ho una domanda. Dunque, mi faccia capire: allora se io sento la voce di Dio che mi ordina di uccidere il mio figlio primogenito, lo devo ammazzare?»
   Il frate ebbe dieci secondi di paralisi. Poi, con un filo di voce, rispose:
  «Beh… se sei proprio sicura che sia la voce di Dio… ehm… sì.»
  «E come faccio a sapere se è la voce di Dio o la voce della mia pazzia?» chiesi ancora.
   Impietosita dalle evidenti ambasce in cui versava il frate, intervenne una signora molto ferrata in Sacre Scritture e catechesi:
  «È la Chiesa che ci aiuta a discernere!» proclamò. «Solo la Chiesa ci consente di distinguere la voce divina dai nostri pensieri!»
  In pratica, se la Chiesa – ovviamente nella persona di qualche suo incaricato – avesse capito che a parlarmi era stato Dio, neanch’io avrei dovuto esitare a far fuori la mia progenie.
  Mi rivoltai indignata, asserendo che mai e poi mai avrei creduto in un Dio che comanda ai suoi fedeli di diventare assassini, e che sicuramente la storia di Abramo aveva altre spiegazioni - come in effetti ha. E l’incontro degenerò in baruffa. La signora se ne andò sbattendo la porta.
 L’episodio che ho raccontato non è una barzelletta. Mi è realmente accaduto. E quella che avevo posto non era una domanda oziosa, perché solo pochi giorni prima una donna aveva strangolato la sua nipotina di tre anni proprio perché “gliel’aveva ordinato Dio”.
  Perché ne parlo?
  Perché è sconcertante vedere come il concetto dell’omicidio sia maneggiato con tanta disinvoltura dai nostri rappresentanti religiosi.
  «Non uccidere», recita uno dei comandamenti fondamentali del cristianesimo.
  «A meno che…» è la frase che noi vi abbiamo aggiunto. A meno che non te lo suggerisca Dio stesso, a meno che non serva a sbarazzarti di un nemico, a meno che non sia necessario eliminare un antagonista – anche religioso, perché no? -, a meno che non sia utile e conveniente.
  Tuttora i ragazzi che ricevono la Cresima vengono esortati a farsi “soldati di Cristo”. Nelle intenzioni vorrebbe essere un invito a combattere il male, ma… che cos’è il male? O meglio, chi è il male?
  Il male è costituito dal nemico, è ovvio. Tant’è vero che durante la cerimonia in cui si impartisce questo sacramento viene letto un brano, tratto dall’Esodo, in cui si narra che Giosuè entrò in guerra contro un popolo vicino - per ordine divino, ci mancherebbe - sterminando vecchi, donne, bambini:
  Allora il Signore disse a Mosè: «Scrivi questo in un libro perché non sia mai dimenticato: Io voglio annientare gli Amaleciti; nessuno sulla terra si ricorderà più di loro!». Allora Mosè costruì un altare e lo chiamò: "Il Signore è la mia bandiera" (Es. 17, 14-15).
  In un simile contesto, l’invito ad essere “soldati di Cristo” acquista un’interpretazione sottilmente inquietante. C’è da chiedersi come lo recepiscano i giovani cresimandi.
  Uccidere, violentare, massacrare, distruggere: verbi tipici dell’Antico Testamento. Appartengono dunque a tempi remoti… forse.
  Andando un po’ avanti nei secoli, si scopre che la pratica dell’adorazione eucaristica fu istituita nel 1226 ad Avignone “per celebrare e ringraziare per la vittoria ottenuta contro i catari nelle ultime battaglie che seguirono la Crociata Albigese” (L’Osservatore Nostrano 23.03.08). Un ringraziamento a Dio, ancora una volta considerato il mandante, per lo sterminio di migliaia di esseri umani, alcuni colpevoli di non condividere l’avido pensiero ecclesiastico, altri del tutto innocenti. In quell’occasione si fece onore Papa Innocenzo III, entrato nella storia con la sua celebre frase: «Ammazzateli tutti, Dio riconoscerà i suoi».
  Ma l’evento, a quanto pare, meritava di essere ricordato con delle celebrazioni. È interessante sapere che la Santa Inquisizione nacque proprio per scovare e punire gli Albigesi. Anche se, dopo aver egregiamente assolto il suo compito sopprimendoli tutti, divenne utile strumento dell’odio verso le donne, quando cominciò la caccia alle streghe.
  D’altronde erano tempi oscuri, e la Chiesa non faceva altro che adattarvisi… o no?
  No, perché la mentalità di ogni tempo è dettata dalla religione, e mai il contrario. La Chiesa non era crudele e spietata perché i tempi erano quelli. Piuttosto, i tempi erano quelli perché i rappresentanti della Chiesa erano crudeli e spietati, e condizionavano efficacemente cultura, tendenze e costumi.
  Non è bene rivangare gli errori del passato, si dice, serve solo a fomentare altro odio.
  Non è così. È bene conoscere, invece. Perché gli errori del passato non sono stati rinnegati, allontanati, seppelliti. Giacciono sotto una sottile coltre di ghiaccio che non li ha distrutti, ma solo… surgelati. E al primo ardore, al primo livore, sono pronti a scongelarsi e a saltar fuori freschi e vivaci.
  Se così non fosse, un pio fraticello francescano non mi autorizzerebbe ad uccidere il mio figlio primogenito; non si commemorerebbe una guerra durante la Messa, invitando dei ragazzini a diventare “soldati”; non si ricorderebbe con fierezza il massacro dei Catari su un foglietto distribuito a Pasqua in parrocchia.
  Io mi chiedo che valore abbiano, all’interno di questa diffusa spiritualità omicida di cui non riusciamo a liberarci, i continui richiami “a favore della vita”. È peccato mortale far uso di contraccettivi perché “impediscono la vita”. La vita è sacra anche quando significa sofferenze atroci per un nascituro, che crescendo deforme e immobile si troverà a maledire i suoi disgraziati genitori. Bisogna difendere la vita a tutti i costi anche quando Dio chiama a sé un suo figlio; ci si oppone con ferocia alla morte, che pure è nell’ordine naturale delle cose. In nome della vita ci si sostituisce a Dio, e attraverso l’accanimento terapeutico si prende il suo posto infischiandosene delle Sue Leggi.
  Ma cosa è la vita?
  La vita non è solo respiro, non è solo la venuta o la permanenza su questa terra. La vita è forza, vigore, gioia, intraprendenza, motivazione, energia, amore. Se queste componenti mancano, non per volontà personale ma per eventi naturali non modificabili, non si parla più di vivere ma di vegetare. E a chi mai potrà essere utile questo tipo di esistenza? Crediamo davvero che il tormento possa costituire l’unico scopo di una vita intera? E come possiamo permetterci di decretare la sofferenza perpetua e insopportabile di qualcuno?
  Pensiamoci, prima di schierarci con superficialità e arroganza “a favore della vita” con l’unico intento di preservare un respiro, disinteressandoci completamente di tutto il resto. Tavolta dietro frasi in apparenza tutte spirituali si cela un delirio di onnipotenza. Quando ci conviene, Dio ci ordina di uccidere e di entrare in guerra; quando non ci conviene, la vita diventa improvvisamente sacra e pretendiamo di imbrigliare la natura e la morte, contrastando – nel nome di Dio – le sue stesse Leggi.
  Ma tant’è: è sempre Dio il mandante, il colpevole, il responsabile delle nostre violenze e delle nostre prevaricazioni. E se non è colpa di Dio, allora è colpa del demonio. Si può scegliere. L’importante è sentirsi a posto con la propria coscienza, dopo essersela lavata al catino di Ponzio Pilato.
Maria Antonietta Pirrigheddu
10.04.08

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