Vai ai contenuti

La spiritualità ha un corpo

Articoli
LA SPIRITUALITÀ HA UN CORPO
  Fai un fioretto a Gesù» ci dicevano quando eravamo bambini, per convincerci a qualche rinuncia. «Mangialo per fioretto alla Madonna», quando ci trovavamo di fronte ad un piatto che proprio non andava giù.
  Fin da piccolissimi abbiamo imparato che Gesù e la Madonna chiedono sacrifici, e che il più delle volte per far loro piacere dobbiamo dare un dispiacere a noi. Così anche da adulti, dopo esserci affrancati dagli aspetti più grossolani (e ingenui) della religione, ci trasciniamo dietro qualche idea poco fruttuosa. Quante volte siamo stati tentati di richiamare l’attenzione di Dio promettendogli, in cambio, di rinunciare a qualcosa che per noi era importante? E in quanti hanno abdicato addirittura ai propri sogni, alle proprie aspirazioni, nella speranza di ottenere un “favore” da Lui?

Imparare a godere del paradiso terrestre

  Tuttora la parola spiritualità viene associata a termini quali ascetismo, austerità, distacco, incorporeità. In suo nome viene spesso imposto di astenersi dai piaceri, almeno in buona parte. Nell’immaginario collettivo il contrario di spirituale è carnale. Già, perché la “carne” viene considerata il ricettacolo di ogni impurità.
  Allo stesso tempo, si dice di sé «Io sono una persona spirituale» per indicare che ci si sente legati ad una religione, a qualche dottrina, a qualche forma di insegnamento che ha a che fare con Dio. Eppure non ha senso credere che questo Dio ci abbia posto sulla terra affinché ci priviamo volontariamente di ciò che Lui stesso ci ha messo a disposizione. In pratica si pretende di avvicinarsi a Lui disprezzandone l’opera. In fin dei conti, disprezzando la vita.
  Non si può immaginare un Dio buono che ami la sofferenza dell’uomo. Se l’ha messo al centro di un paradiso terrestre (o almeno di quello che era un paradiso terrestre, prima che lo distruggessimo), è perché imparasse a goderne. Perché imparasse a gustare quel dono e ad esserne felice, così da capire anche l’importanza del proprio esistere.
  Dio non ha bisogno delle nostre privazioni. Cosa mai ci guadagnerebbe? Certo, possono essere utili a noi: per esercitare un po’ di autodisciplina, o per ottenere qualcos’altro a cui aspiriamo. Ma le rinunce volontarie e ripetute spesso sono un alibi. Una scusa per allontanarci da ciò che siamo chiamati ad essere, per sottrarci al compimento del nostro “destino”. Ci si illude di ingannare l’Altissimo tenendolo buono coi fioretti. Ma l’inganno è contro di noi.

La forza di vivere intensamente

  Un’altra idea difficile da sradicare è che «siamo qui solo di passaggio», che ogni gioia terrena sia effimera e che tutto debba essere visto, o fatto, in funzione di un Aldilà. In realtà, proiettarsi troppo nella speranza di una vita futura significa non saper vivere appieno quella attuale. E ancora una volta è un torto che si fa a quel Dio che si dice di venerare, oltre che a se stessi. Del resto, se siamo convinti che la sofferenza ci apra le porte del Paradiso, o addirittura che costituisca una via privilegiata per arrivarci, come riusciremo a godere di qualcosa dopo la morte? Se la nostra attitudine a provare piacere è atrofizzata, le cose non cambieranno quando ci ritroveremo all’altro mondo!
  In fondo siamo come bambini che devono crescere e imparare. Restando al buio, rifiutandoci di nutrirci dell’esistenza, non ci svilupperemo in modo sano. E quando oltrepasseremo la soglia di casa non sapremo come muoverci.
  La permanenza sulla terra non può essere considerata una fase di transito. È solo uno stadio dell’evoluzione, è vero, ma non meno importante delle altre tappe. Anzi, si dice sia un’occasione unica di sentire e conoscere ciò che non si potrebbe mai sperimentare altrove.
  Perciò, anche se può sembrare paradossale, il fondamento della spiritualità sta nella capacità di vivere intensamente. Sta nella forza di assaporare ogni aspetto della vita, di godere delle cose buone, di accettare anche quelle che appaiono meno desiderabili. Più si è contenti e propensi a meravigliarsi, più si diviene capaci di trasmettere la bellezza che si ha dentro di sé. Apprezzando il creato si arriva al Creatore.

La spiritualità abbraccia la carnalità

  È spirituale l’uomo la cui coscienza sa individuare il bene comune e l’amore. Che sa cercare l’essenza delle cose senza fermarsi alla superficie, senza lasciarsi traviare da convenzioni o pregiudizi. Perché, molto più che di dottrine e religioni, la spiritualità ha bisogno di purezza d’animo, dell’apertura del cuore, della pace della mente. La ricerca interiore – che costituisce una delle più grandi sfide per l’essere umano - è un suo elemento fondante.
  Riscriviamo questa parola, dunque. Liberiamoci del senso che le viene dato di solito, che non è altro che una sua deformazione. Lo spirito non chiederà mai di rinunciare alla sua controparte materiale. Perché scindere la spiritualità dalla carnalità (o corposità, se preferite) significa separare l’uomo da se stesso.
  C’è solo un modo per celebrare l’esistenza: viverla. Immergersi in essa. Sentirne il soffio: sulla pelle, nelle emozioni e nei sentimenti, dentro i pensieri e i gesti. Vederla pulsare negli eventi. Sentirne l’abbraccio nelle relazioni. È così che si costruisce un ponte tra il piano materiale e l’invisibile. Attraversandolo, si giunge a toccare la parte più preziosa di sé.
  Il tempio dell’essere è tutt’altro che spoglio. Perciò dall’incontro con se stessi si esce arricchiti, con la consapevolezza che la spiritualità non è mai fine a se stessa. La spiritualità ha un corpo, che utilizza per agire nel mondo: per portarvi una comprensione più alta, una soluzione ispirata, un frammento d’anima.
Maria Antonietta Pirrigheddu
25.09.10

Vedi anche:
Torna ai contenuti